“… ricerca di questo artista sembra essere nella volontà di sbrogliarsi della “mentalità “impressionista e riattaccarsi a quei pittori come Van Gogh e Gauguin nei quali più che “posizione” il mondo impressionista giungeva a essere forma e cioè si spogliava dei numerosi attributi scientifici di pittura pura e dei significati polemici ivi connessi, per puntare diritti alla poesia”. 

Antonello Trombadori, Corrente, 1939


(…) Sono espressioni genuine di Panciera sia quel bilicare in una modernissima ponderazione delle forme esili ma rastremate fino al loro modulo esatto, sia quell’armonia di linee, lenta di malinconia, ma piena di inattesi profili, tanto importante in una scultura che si affida più alla tensione del disegno che al modellato e al chiaroscuro, la sua deformazione risponde a questo rigore compositivo. 

Licisto Magagnato, Gazzettino sera,1947


“I suoi disegni rivelano la funzione estremista dell’arte contemporanea. Si assiste su di essi alla progressiva scarnificazione dell’immagine, allo sgrovigliarsi filo per filo di un’intricata matassa. (…) E’ interessante rilevare come, nel procedere dell’assetato amore di forme pure, Panciera riesca ad imprimere un ritmo di grazia, un’intera cadenza di danza, come se la vicenda si svolgesse sopra un palcoscenico di balletti. La figura straziata muove allora non so che aria d’ironia, un pizzicato tempo di carioca, convulso e esilarante. E nasce un sospetto: che sia questo un suo modo, non meno consolante, di avere pietà del mondo”. 

Marco Valsecchi, Disegni di Panciera,1948


“ Si può seguire lo sviluppo delle sue figure dal loro attacco di terra a mano a mano che prendono quota, secondo un dosato bilanciamento di volumi, di pesi, di moti nello spazio, mantenendo sempre costante l’impulso dell’intelligenza che le sollecita a concretizzarsi e l’emozione, che ne rispetta la grazia e la riscatta, anche qui per senso di equilibrio, dove affiorerebbe un istinto di violenza. Ritmo e architettura e, bisogna aggiungere, invenzione scultorea”. 

Luigi Carluccio, Il Popolo Nuovo,1948


“Queste litografie potrebbero chiamarsi pantomime disegnate non soltanto perché il motivo è spesso suggerito dalla danza, da ballerine, da mimi: ma perché il disegno è inteso come movimento che cerca di chiudersi negli spazi, con slanci acuti e cadenze che ricordano lo stilismo di certi danzatori (…) queste litografie si richiamano alle sculture dello stesso Panciera: a quelle sculture dai contorni chiusi, come idoli orientali; piccoli nudi di donne, o cavalli impennati, dove le forme convesse dei ventri diventano sessualmente esasperanti, sostenute da arti consumati nella tensione; forme in cui il blocco centrale, serrato, dà il senso della torsione, e sui colli lineari le teste diventano maschere, con un peso che concorre all’equilibrio del movimento nello spazio”. 

Guido Ballo, 18 Litografie di Gastone Panciera,1950


“Dal neo-cubismo ha tratto il concetto totalmente nuovo di volume. Per volume non si intende solo lo spazio occupato dall’oggetto ma anche quello tra oggetto e oggetto per il quale anche il vuoto (a- materialità) diventa volume. Il vantaggio e l’interesse di questo “vuoto” è dato dal fatto che dall’alternarsi di queste due forze contrarie nasce sia il movimento che il calore umano dell’opera. Dal surrealismo – altro stile esaminato da Panciera- non ha ricercato i valori letterari, come quelli delle figure immerse in paesaggi fantastici, ma il senso dell’espressione della vita umana fra la realtà e la possibilità della rappresentazione del personaggio-uomo nella vita quotidiana. Da ciò il senso di traslato del suo surrealismo. Da questi due stili, o meglio concezione di stili, emerge la sua odierna cultura ove si scorge tutto un passato artisticamente inquieto, sempre rivolto ad una sovrana libertà di azione, di pensiero, di comunicazione, di vita”. 

Giorgio Comerio, La Parrucca,1964


“Gastone Panciera è uno scultore in perpetua e tormentata ricerca. E’ così che da una felice partenza naturalistica è andato via via spostandosi verso un arcaismo di vaga ascendenza nuragica, subendo a un certo punto il fascino di una certa plastica orientale. E’ una linea su cui si è mantenuto fino ad oggi, dando ai suoi legni e ai suoi bronzetti una nervatura sempre più stretta e scarna, affidandone il risultato a un intreccio di forme contrastanti, energiche oltrechè eleganti, sempre comunque trattenute da un interno sicuro rigore. E chiaro che un simile procedere, dominato dalla più avara indulgenza verso il proprio lavoro, non ha mai concesso a Panciera una folta produzione. Resta tuttavia il fatto che egli, nell’ambito di quest’arte difficile, ha inciso il suo segno personale e fissato un suo ben definito profilo. Tant’è vero che, nel momento di un suo squisito interesse per la pittura, natogli spontaneamente in questi ultimi tempi, è ancora la presenza della scultura che l’accompagna”. 

Mario De Micheli, mostra Fondazione Corrente, 1983


“Suprema potenza drammatica e inconcussa fede per la sintesi attanagliano l’elemento plastico delle sue statue di bronzo in una morsa che modella le figure in forme slanciate e dinamiche, alcune collocate sul dorso di improbabili cavalli e svettanti nei cieli di un’avvolgente ironia epica. Le figure, vertenti generalmente intorno al motivo del cavallo, delle amazzoni e delle pantomime, pur richiamandosi alle opere di Marini e Giacometti, presentano un’originalità di segno irripetibile, dovuta anche all’inserimento di elementi di derivazione cubista, in alcune opere degli anni’60 e all’insinuarsi, negli ultimi ritratti, di una certa atmosfera surrealista”. 

Marcella Di Siena, D’Ars, 1994


“Gastone Panciera assimilò il cubismo, ma anche quelle arti e quelle culture che hanno aiutato la nascita del movimento; mi riferisco all’arte africana, a quelle primitive, quelle arcaiche, quelle orientali e in particolare quella indiana. Queste sue scelte, a mio giudizio, non ubbidivano solo a consonanze estetiche, ma invece all’esigenza di esprimersi con un linguaggio che direttamente e senza sovrastrutture, manifestasse la spiritualità dell’uomo “. 

Silvio Zanella, dal catalogo della mostra antologica presso Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate, 1998


“ Il filo nevralgico che lega le diverse stagioni del lavoro mi sembra sia questa indagine sistematica degli esiti plastici che lo studio della figura verticale comporta: anche se non vi è una rinuncia all’indagine sul volume nella sua interezza Panciera sembra prediligere un punto di vista privilegiato su cui lavorare, e dai cui osservare la scultura, quello frontale, in cui l’elemento fondamentale è da attribuire al disegno, al contorno più che alla forma nello spazio. Complementare a questo percorso può essere una non episodica indagine di Panciera proprio nell’ambito del volume, della sua varietà nell’esplorazione a 360 gradi testimoniata da un ciclo di opere in legno che nascono dalla particolare fisionomia plastica della radice che in parte l’artista lascia intatta nella sua originale fisionomia spiraliforme, in parte corregge evidenziando le qualità mimetiche del materiale. Si tratta a ben vedere di un calibrato ribaltamento rispetto al procedimento prima citato: da un modello reale alla sua replica essenziale in quest’ultimo caso, dalla forma naturale alla sua lettura metamorfica nel primo”: 

Alberto Veca, dal catalogo della mostra presso Superficie Anomala, 2001


“Piani molto diversi vengono convocati, quali la violenza sulla natura e tra gli uomini, ma il dolore non è toccato con seriosità, il tragico si mescola e apre al suo interno squarci di grottesco. Le tensioni orizzontali e verticali innervate su un archetipo quale è il cavallo, non di rado sfociano in echi donchisciotteschi. Gioco e misura con la violenza subita e arrecata alla vita, non rinunciamo perciò alla sapienza di cercare di inventare lampi di gioia”. 

Adam Vaccaro, riflessione sulla mostra, Studio D’Ars, 2008


“Panciera ci porta a guardare la scultura come arte tridimensionale per elezione, definisce i margini dello spazio dentro una realtà sperimentata non solo come geometria, ma soprattutto come poesia”. 

AKY Vetere,  riflessione sulla mostra, Studio D’Ars,2008


“L’attitudine alla trasformazione, nel ciclo vitale, è espressione di leggi universali e, inseguendo queste leggi, il linguaggio di Panciera diventa testimonianza di una realtà che offre momenti di riflessione ancorati alla qualità più poetica e sensibile dell’espressione artistica. L’artista, alludendo alla complessità dell’esistente e al mistero cosmico, così sfuggente alle certezze scientifiche e tecnologiche, riesce a cogliere il passaggio dal fisico al metafisico. Non racconta per immagini, non si diverte con giochi di pura invenzione, al contrario, il suo impegno etico, il suo sguardo critico nei confronti dell’esistenza lo motiva a sperimentare connubi, mutazioni, esplosioni formali nello spazio, travalicando i limiti degli schemi tradizionali, dei rigidi confini tra naturalismo ed astrattismo. Il risultato è una visione interiore dei legami vitalistici tra gli esseri, del palpitare segreto della vita articolato nei suoi aspetti più diversi”. 

Silvia Venuti, nota di commento alla mostra personale, Studio D’Ars, 2008


“Nella diversità dei periodi, dei materiali e dei generi cui si volse negli anni, fu certo elemento unificante il suo temperamento sensibile, vivo di umori e di quelle scontrose insorgenze mai comunque lesive della raffinata levità delle sue immagini. Una vitalità sofferta ma produttiva grazie alla freschezza e molteplicità della sua ispirazione. Ecco allora i bronzi dalle figurette esili ma di palpitante erotismo, i legni eloquenti nella loro icastica espressività e le terrecotte dalle morbide linee e i caldi cromatismi in simbiosi con le luci che le accoglie. Sono loro a segnare il passaggio tra l’arte del modellare e la pittura, specie i disegni cui tanto l’artista di dedicò soprattutto nella seconda metà del secolo scorso. Disegni da godere come opere finite, contrariamente, trattandosi di uno scultore, all’idea tradizionale del disegno preparatorio dell’opera plastica”. 

Marica Rossi, La vita delle forme fra sentimento e immaginazione, Galleria Sante Moretto, Monticello Conte Otto, 2010